Sono intervenuto al convegno ospitato dal centro MaCSIS dell’Università Milano-Bicocca, L’Aquila: il racconto oltre la sentenza, con una relazione dal titolo “L’aquila e il trauma mediatico”, nel tentativo di indagare un aspetto che ritengo chiave. E cioè: attraverso quali passaggi un capo d’imputazione molto preciso (“valutazione negligente del rischio” e “informazione fuorviante”) sia stato sostituito da un altro (“mancato allarme”) e come in questo “altro” si sia oggettivizzata la narrazione – presto divenuta globale – del “processo alla scienza”. E come quest’ultima, prendendo le mosse da assunti travisati, abbia riproposto un dibattito falsato che ancora, se da un lato ingenera confusione nel lettore, dall’altro marginalizza le problematiche messe a tema dalla sentenza.
Nello scritto letto in apertura al convegno ospitato da MaCSIS, Bruna De Marchi, una delle maggiori esperte italiane in comunicazione del rischio, ha accennato al fatto che si sia precisato “ad nauseam” che a esser processata non sia stata la scienza. Una “verità” che è necessario calare nel contesto concreto del quotidiano, perché il cittadino – ancora oggi – ha le idee molto confuse sulla “questione Grandi rischi” e continua a chiedersi “perché siano stati messi in galera degli scienziati”. Del resto, molta stampa, anche internazionale, continua a offrire ricostruzioni senza un vero punto focale, con passaggi spesso contraddittori quando non ambigui…
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