–dall’inviato Paolo Bricco
Storia abbastanza sconosciuta di uno scienziato italiano, Stefano Buono, che, diventando imprenditore, ha fatto successo. Un successo di cifra ed entità, dimensioni e attitudine americane, più che europee. Nella bolla mediatica del venture capital italiano – negli ultimi venti anni alimentata dalle epiche gesta di startupper che fatturano come cinque pizzerie storiche di Napoli o come tre macellerie ben avviate della Brianza – Stefano Buono, 52 anni, non è in prima fila. E non è nemmeno in seconda o in terza.
Lui non ha nulla dell’imprenditore biotech abituato a parlare con i banchieri d’affari e con gli analisti. È vestito esattamente come quei compagni di liceo bravissimi nelle materie scientifiche – «in effetti, mi sono diplomato con 60/60 al Galileo Ferraris di Torino, ma devo dire che mi veniva tutto bene, non ho mai studiato» – e che poi frequenta l’università con naturalezza ma senza il sacro fuoco del dovere e dello studio matto e disperatissimo («alla facoltà di Fisica di Torino ho preso 110, senza lode però»): ha i jeans blu denim, la camicia azzurra e un maglione grigio con la zip davanti. Andiamo a mangiare da Ribot, a Milano, a pochi minuti dalla redazione del Sole 24 Ore. Lui prende una tagliata di manzo, con verdure bollite. Io un piatto di ravioli al sugo di noci.
Stefano – rare presenze ai convegni e comparsate ai festival, zero consulenti milanesi per la comunicazione e pochi articoli sui giornali italiani – non lo conosce praticamente nessuno. Sarà che la società che ha fondato nel 2002, la AAA, era di diritto francese. E, però, i capitali iniziali – e la prevalenza della base tecnoproduttiva – erano italiani. Sarà che il passaggio cruciale è avvenuto nel 2015 con la quotazione al listino tecnologico di New York, il Nasdaq, di questa società specializzata in medicina nucleare, in prodotti diagnostici e in terapie nell’oncologia, nella cardiologia e nella neurologia. E, però, alla fine la Novartis ha pagato 3,9 miliardi di dollari – il closing formale è avvenuto il 19 gennaio di quest’anno – per realizzare una Opa totalitaria e amichevole su una società – 150 milioni di euro di fatturato nel 2017 e 630 addetti in tutto il mondo – la cui forza potenziale e la cui dimensione europea sono imperniate anche – soprattutto – sui laboratori dislocati e sulla ricerca effettuata a Venafro in Molise, a Meldola in Emilia Romagna, a Saluggia e a Colleretto Giacosa in Piemonte. Il nostro Paese. Il quale – come chiarisce bene questa storia – ha un senso scientifico e una validità strategico-industriale soltanto se inserito nel contesto continentale e se proiettato su mercati – commerciali e delle idee – globali…
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